Di Rossella Pruneti
Articolo pubblicato su Cultura Fisica & Fitness, Anno XL, N. 331, marzo/aprile 1997 ©
Nel libro quinto dell’Eneide di Virgilio Enea indice dei giochi in commemorazione del padre Anchise. Ecco tra le tante competizioni la corsa delle navi. Sono tre e tra queste ce n’è una che procede più decisa delle altre. Ce la farà a doppiare lo scoglio, a raggiungere la meta. Ce la faranno, i suoi energici rematori, a battere tutti gli altri. Ce la faranno perché pensano in cuor loro di potercela fare. Possono perché pensano di potere (Possunt, quia posse videntur). L’atleta latino gareggiava sfruttando poco più che la sua costituzione naturale e la voglia di vincere, oggi l’atleta ha a sua disposizione una gamma notevole di ritrovati farmacologici, tecnologici, psicologici. E allora, il desiderio, la visualizzazione, la convinzione, sono ancora sufficienti per ottenere la vittoria? Quali sono i mezzi moderni utilizzati per il fine agonistico? E come si destreggia l’atleta nella loro scelta, in che rapporto si pone, li domina o ne è dominato?
Il doping psicologico.
Un elemento ancora non sufficientemente analizzato dalla psicologia dello sport è il doping. Non il doping come devianza, ma l’esperienza del doping nei vissuti dell’individuo/atleta. Oggi molti allenatori regalano ai propri atleti l’illusione che il doping sia la chiave del successo, facendogli credere di non potercela fare altrimenti. Ancora più drammaticamente, lo sport costringe a credere nel doping non solo per vincere ma, ancor prima, per essere scelti e, in un secondo momento, per continuare a vincere. Già è strana l’idea dell’impiego della mente nel bodybuilding, ancora più strana è quella di un “doping psicologico”.
Cosa è il doping?
Bisogna partire da un definizione completa di doping. Per ora non c’è una definizione universalmente accettata e soddisfacente. La lista e l’elenco delle sostanze e dei metodi proibiti secondo le federazioni sportive nazionali ed internazionali è aperta. Il CIO ha riconosciuto che un semplice elenco sarebbe stato sempre indietro rispetto allo sviluppo e facilmente eluso. Una definizione generalissima (nel senso che qualsiasi nuova forma di doping che potrà essere mai inventata rientrerà nella nostra definizione) è:
“Per doping di un atleta si intende:
1) utilizzo di mezzi farmacologici, endocrinologici ed ematologici;
2) manipolazione di sostanze dell’organismo (es. autoemotrasfusione) e manipolazione dei campioni (ad es. di urina) richiesti per analisi antidoping;
3) manipolazione della psiche dell’atleta; al fine di migliorare le prestazioni sportive oltre le possibilità offerte dall’organismo, oltre il lecito, oltre l’etica.”
Pochi saranno propensi ad accettare il punto 3. Eppure il doping deve essere visto non solo come manipolazione del fisico ma anche della psiche. È importante stabilire se gli effetti sulla psiche siano causati dalla manipolazione del fisico, se certe manipolazioni troppo disinvolte della psiche dell’atleta non siano già forme di doping, se e fino a che punto è eticamente corretto regalare l’illusione che per vincere bisogna doparsi. Qualora non siano addirittura farmaci psicoattivi (che agiscono sulla nostra psiche) come l’anfetamina (veniva somministrata alle truppe d’assalto) o la caffeina, o farmaci psicodilettici (perturbatori della psiche), le sostanze utilizzante nel doping, come ogni farmaco, hanno: 1) un aspetto biologico e biochimico (cioè le modificazioni del farmaco sul nostro assetto biologico); 2) un aspetto sociale (cioè le modifiche che inducono sul nostro comportamento e sulle relazioni sociali).
Corpo, mente e … doping!
La tesi qui sostenuta è che alla relazione “corpo-mente” va aggiunta la nuova dimensione del doping. Ossia nel delicato rapporto psiche-corpo si intromette, qualora l’atleta faccia uso del doping, un terzo elemento che non è assimilabile o riconducibile alla sfera delle attività fisiche (il doping non è solo e semplice manipolazione) né è solo psicologico. È un qualcosa che si frappone a tutti gli effetti tra corpo e mente e che da come riesce a collocarvisi ed all’equilibrio o squilibrio che provoca in questi rapporti dipende la salute (questa volta sia psicologica che fisica) e l’etica dell’atleta. Schematizziamo i possibili rapporti intrattenuti da doping, corpo e mente.
Schema 1. In questo schema c’è un doping direttamente applicato al corpo che compromette di riflesso la salute mentale dell’atleta. Il doping ha effetti sulla psiche sia perché le sostanze squilibrano gli ormoni dell’organismo (vedi gli effetti “psicotropi” quali aggressività, euforia ed allucinazioni, ‘roid rage) sia perché cambia il concetto di Sé (non solo per una diversa costituzione fisica ma anche per la trasgressione collegata all’acquisto e all’autosomministrazione di sostanze proibite che rimandano al soggetto una diversa immagine di Sé nella società). Questo è l’atleta che va educato ad un uso corretto del doping collegandolo alla sua psiche oltre che applicandolo al suo corpo, è un atleta che va aiutato a crescere e a maturare, a curare ed a sviluppare di pari passo corpo e psiche. Probabilmente si tratta di un “purosangue bizzoso”: l’atleta (dopato) vince pur senza avere sviluppate quelle qualità che servono per vincere (consapevolezza, autonomia, autostima).
Schema 2. Qui il “doping” agisce primariamente sulla psiche ma in negativo o in positivo, tanto che possiamo distinguere:
2.1) un doping psicologico “deviante”. Il preparatore o l’allenatore convince ed aizza l’atleta, quando il preparatore, il pusher (lo spacciatore) o paradossalmente lo stesso atleta che si autosomministra il ciclo regalano l’illusione della grandezza e dell’imbattibilità legandola all’assunzione di una sostanza (non legandola alle proprie doti naturali). Il doping allontana l’individuo da sé e dai suoi mezzi e prende il posto della sicurezza. È il caso dell’atleta Asterix, che aspetta la pozione magica dal suo druido o, nei casi più gravi, dell’atleta Obelix, che ci è caduto dentro da piccino! Questi sono i risvolti psicologici del doping fatali per una mente fragile: l’atleta cade in depressione perché sente di non essere autonomo (di dipendere da qualcosa che non è se stesso per potercela fare).
2.2) un doping psicologico “terapeutico”. Si ha un utilizzo positivo quando l’allenatore, lo sports counselor o lo stesso atleta aiuta il rilassamento o la visualizzazione attraverso varie tecniche (per esempio la peak performance, il mental training, il biofeedback); oppure quando lo psicologo dello sport opera con un lavoro di intervento, perfino nel settore della psicoterapia vera e propria, per atleti disturbati (anche da problemi non connessi al doping, come l’ansia preagonistica, la nikefobia, la demotivazione, la depressione, la deconcentrazione, la master syndrome, … ) o per atleti che hanno smesso con l’assunzione di steroidi (e devono “essere disposti a rimettersi in discussione da cima a fondo, ad affrontare tutte le insicurezze mascherate dagli steroidi e tutti i propri demoni per sconfiggerli.”[Philip Goglio e J. Kindela, “Perdere il controllo”, Flex, sett. 1996, n. 5]).
Schema 3. C’è poi la combinazione “portentosa” di corpo, mente e doping. Ma come mediare i loro rapporti, come utilizzare questa potente arma del doping disinnescandone il “doppiotaglio” psicologico? È ormai sotto gli occhi di tutti gli agonisti che a parità di doping tra due atleti la differenza la farà sempre la genetica. Non si riflette altrettanto sul fatto che a parità di doping e di genetica la differenza la fa la psiche dell’atleta. Il doping si impianta ed ha senso su due prerequisiti precisi, uno di natura fisiologica: la genetica, uno di natura psicologica: la mentalità e la forza interiore del campione. In altre parole, il doping conduce oltre le possibilità, ma non si può dare ciò che non si possiede. Solitamente i bodybuilder di alto livello hanno una determinazione che non è completamente regalata dal doping (anche perché il doping da sé non dà quelle caratteristiche necessarie per fare un campione). Il body builder “ideale” può essere paragonato ad un sistema di regolazione nel quale doping, corpo e mente sono soggetti ad una sorta di feedback; ogni elemento controlla l’altro, tendendo a diminuire l’errore ed a massimizzare il risultato.
Doping, antidoping e l’antidoto psicologico.
È politica di organi come il CIO quella di procedere sia con la repressione ed i controlli antidoping sia con misure di carattere informativo ed educativo. La lotta al doping si basa su tre fasi: 1 educazione ed informazione; 2 ricerca di metodi ottimali per raggiungere le massime prestazioni sportive; 3 controlli. I controlli vengono facilmente elusi, i metodi ottimali sono sempre “doping” (dove è la demarcazione tra più natural e meno natural? Il GH di sintesi è doping e la marijuana è natural?) L’educazione e l’informazione sono l’unica strada percorribile. Educazione anche nel senso di assistenza psicologica a chi si trova nel doping. Lo psicologo dello sport che aiuta l’atleta ad affrontare le delicate fasi di un nuovo concetto di Sé, di una personalità debole, delle pressioni dell’allenatore, …. è il miglior antidoping. Il doping psicologico diviene l’antidoto del doping farmacologico. L’atleta arriverà a limitarsi o ad abbandonare il ricorso al doping per propria convinzione. Partendo da una situazione di uso del doping ma aggiungendovi la maturazione e la riflessione si può arrivare al risultato inaspettato di condurre l’atleta proprio fuori dal doping. Il rimedio è nella formazione globale dell’atleta: far cooperare e ben collegare tutte le sue qualità, fisiche e psicologiche.